Via da Valona!
Cento anni fa la lotta per l’indipendenza in Albania , l’Anpi ha organizzato a Brindisi lunedì 29 giugno 2020, alle ore 19, nello spazio aperto delle ex Scuole Pie o Corte degli Artigiani una breve cerimonia alla presenza del sindaco Riccardo Rossi, di Cgil, Arci, Libera, Fondazione Gramsci, Ipsaic. Un secolo fa, il 29 giugno del 1920, a Brindisi ci fu una sommossa popolare contro l’invio di truppe in Albania, definita la rivolta degli arditi. Era una lotta per l’indipendenza nazionale del popolo albanese e la solidarietà internazionalista e anticoloniale della popolazione italiana, di operai, contadini e artigiani contro le guerre. La ribellione a Brindisi il 29 giugno degli Arditi d’Italia, appoggiati dalla popolazione, fu tra gli eventi più importanti di quel ciclo di lotte. Il movimento di soldati e di popolo fu una reazione forte contro la prospettiva di un’altra guerra, dopo aver patito la Grande Guerra. Nella storia italiana vi era già una robusta e radicata tradizione di pacifismo internazionalista, di opposizione alla guerra e contro le imprese coloniali, ispirata dai movimenti di popolo con i socialisti e gli anarchici. I fatti di Brindisi accaddero dopo la rivolta degli Arditi a Trieste l’11 di giugno e l’ammutinamento dei Bersaglieri il 26 giugno ad Ancona, a cui si unì il popolo.
La Cerimonia “distanziata” giorno 19 giugno presso la corte degli artigiani di Brindisi, organizzata da ANPI per celebrare il centenario della rivolta . la cerimonia si è svolta con la lettura del messaggio di saluti del presidente dell’ANPI di Ancona, Daniele Fancello, città che un secolo fa visse la stessa gloriosa esperienza insieme a Trieste, con la presenza Donato Peccerillo, presidente ANPI provinciale Brindisi, e gli interventi del sindaco
di Brindisi, Riccardo Rossi, del segretario generale Cgil Brindisi, Antonio Macchia (importante fu all’epoca l’impegno delle Camere del lavoro), di Natale Parisi della Fondazione Gramsci, di Silverio Tomeo, presidente ANPI Lecce, di Francesco Mauro, responsabile Community Hub, di Davide Di Muri per l’Arci Brindisi, di Maria Ventricelli, direttrice dell’Archivio di Stato, di Kozeta Gjini Guxholli referente locale della comunità albanese, di Vito Antonio Leuzzi dell’Ipsaic. di Caterina Masiello, figlia di un sovversivo che un secolo fa scese in campo a soli 17 anni per poi continuare il suo impegno contro il fascismo perseguitato e confinato, di Antonio Camuso, dell’ANPI di Brindisi, del Presidente della Comunità africana, Drissa,Kone, c’erano inoltre Michele Di Pietrangelo Michele Cosimo Antonaci di Anpi diTorre, Carmen Cofano di Anpi Fasano e altri spettatori motivati e interessati a conoscere la storia e a preservare la memoria.
La rivolta degli arditi a Brindisi
Nel mese di giugno di quest’anno ricorre il centenario di eventi avvenuti tra le due sponde dell’Adriatico: la lotta per l’indipendenza nazionale del popolo albanese e la solidarietà internazionalista e anticoloniale della popolazione italiana, di operai, contadini e artigiani contro le guerre.
La rivolta degli Arditi a Trieste l’11 di giugno, l’ammutinamento dei Bersaglieri il 26 giugno ad Ancona, a cui si unì il popolo, e infine la ribellione a Brindisi il 29 giugno degli Arditi d’Italia appoggiati dalla popolazione, furono gli eventi più importanti di quel ciclo di lotte. Il movimento di soldati e di popolo fu una reazione forte contro la prospettiva di un’altra guerra, dopo aver patito la Grande Guerra. Nella storia italiana vi era già una robusta e radicata tradizione di pacifismo internazionalista, di opposizione alla guerra e contro le imprese coloniali ispirata dai movimenti di popolo con i socialisti e gli anarchici. Le vicende del giugno 1920 andavano ascritti in quella tradizione.
Le manifestazioni italiane al grido “via da Valona” costrinsero il governo a ritirare tutte le truppe dall’Albania. Il governo italiano il 2 agosto 1920 firmò con gli albanesi a Tirana un “protocollo preliminare” e una convenzione di amicizia italo-albanese. L’Italia rinunciò al protettorato sull’Albania, riconobbe il nuovo governo di Tirana e l’indipendenza e l’integrità dell’Albania nei confini del 1913. Il protocollo prevedeva che le truppe italiane dovessero essere rimpatriate da Valona e dalle altre località occupate in Albania, ad eccezione dell’isola di Saseno.
Le sollevazioni militari in varie parti d’Italia del giugno del 1920 rappresentarono, insieme ai moti per il caro-viveri dell’anno prima e all’occupazione delle fabbriche successiva, uno dei tre momenti significativi del primo dopoguerra italiano noto anche come il Biennio rosso.
Gli accadimenti che si svolsero avevano sullo sfondo l’avvenuta rivoluzione russa del ’17 a cui da tutto il mondo le classi subalterne guardavano con speranza e ammirazione.
Tutto questo era accaduto perché sulla sponda orientale dell’Adriatico, all’inizio del 1920, era nato un forte movimento di indipendenza nazionale dell’Albania con un proprio governo e un parlamento che avevano costituito un Comitato della Difesa nazionale. Questo si batté per liberare il Paese e, agli inizi di giugno, dopo aver dato un ultimatum alle truppe d’occupazione italiane per lasciare il suolo albanese, con circa 5.000 guerriglieri, attaccò la città di Valona stringendola d’assedio.
La rivolta di Brindisi
Per quanto la rivota di Brindisi del 29 giugno fosse stata l’ultima tra le più importanti manifestazioni di militari e di popolo contro la spedizione militare e coloniale in Albania, fu l’atto che contribuì a mettere la parola fine all’intera avventura italiana compiuta in spregio ai principi dell’autodeterminazione dei popoli, e della loro libertà ed indipendenza.
I fatti di Brindisi avevano clamorosamente fatto irruzione non solo nella cronaca nazionale ma anche nel già animato dibattito parlamentare tra l’opposizione socialista e il governo. L’interrogazione dell’onorevole socialista Ciccotti, con la quale il deputato chiedeva chiarimenti sulla vicenda degli Arditi ammutinati a Brindisi che da quel porto una volta imbarcati avrebbero dovuto andare in Albania, era l’accusa contro il governo. Il riferimento polemico dei socialisti ai duri scontri di Brindisi si era abbattuto dentro al dibattito parlamentare smentendo il contenuto delle dichiarazioni che Giolitti aveva fatto pochi giorni prima, dove aveva sostenuto che il suo governo non intendeva mandare truppe in Albania. La palese contraddizione aveva nel prosieguo del dibattito, messo nell’imbarazzo il ministro della Guerra Bonomi che per difendere la posizione governativa aveva opposto deboli e contrastanti giustificazioni.
La versione dei fatti, diramata dal governo per bocca del ministro della guerra nella tornata parlamentare del 30 di giugno ispirò e trovò fedele applicazione in parte della stampa salentina che la fece propria talvolta inasprendo e approfondendone i dettagli.
I fatti di Brindisi del 29 giugno erano maturati dentro al generale clima di tensione che per tutto il mese di giugno aveva coinvolto diversi porti adriatici italiani. La versione ufficiale fu ripresa diligentemente dal periodico la Provincia di Lecce nell’articolo del 4 luglio, il cui titolo era programmatico di un pregiudizio e di una scelta di campo: I gravi fatti di Brindisi-Insidie anarchiche- Morti e feriti –Numerosi arresti.
Il giornale aveva un pubblico composto da professionisti, avvocati, piccola borghesia e intellettuali illuminati di stampo massonico e aveva peso sull’opinione pubblica del Salento proprio negli anni del prefascismo. Di frequente prendeva posizione contro la sovversione predicata dai socialisti, il che spiegava molti dei preconcetti del giornale nei riguardi delle classi subalterne.
La Provincia di Lecce nell’articolo del 4 luglio dava la notizia dell’arrivo in città di un reparto di volontari Arditi d’Italia provenienti da Palermo, giunti la mattina del 29 giugno, comandato dal capitano Nobili e da cinque ufficiali e composto da 120 militari di truppa.
Alle nove della sera gli Arditi incolonnati si erano avviati verso il porto per essere imbarcati sul piroscafo Molfetta della società di navigazione Puglia.
Dopo che sull’imbarcazione erano saliti soltanto quaranta militi, due arditi, rompendo le righe, rifiutarono l’imbarco e dichiararono, arringando i commilitoni, la volontà di non partire per Valona. Nello stesso momento, dalla folla dei cittadini e dei borghesi che aveva assistito al passaggio degli Arditi e che infine si era assiepata nei pressi dei giardinetti della marina e sul molo, si erano levate grida di protesta contro l’imbarco dei militari in vario modo esortati a scendere dalla nave.
Tra la folla assiepata sul porto una coraggiosa donna del popolo, un’operaia di nome Teodora Nuzzo, con decisione, in quei frangenti, era salita sulla scaletta del piroscafo Molfetta e aveva iniziato a spronare gli arditi a non imbarcarsi.
In poco tempo scoppiarono incidenti più seri fra soldati, ufficiali, carabinieri e borghesi e cominciarono a echeggiare sinistramente colpi in tutti i sensi e in tutte le direzioni.
L’operazione di imbarco dei militi, in poco tempo, si era trasformato in uno scontro sanguinoso, con lo scambio di colpi d’arma da fuoco e il lancio di bombe a mano tra la truppa dei 40 che si erano imbarcati e gli 80 Arditi ribelli che si erano rifiutati di salire sul Molfetta e a cui nel frattempo si erano uniti, per dare man forte, numerosi brindisini. Gli scontri violenti continuarono per molte ore sino a notte inoltrata anche dopo la partenza della nave. Per ristabilire l’ordine pubblico, precisava l’articolo, furono chiamati a prestare l’opera loro i soldati del Comando Militare marittimo anche perché gli arditi ribelli vedendosi compromessi incominciavano a sbandarsi e a darsi alla campagna. Tutta la notte non si udivano che fucilate, spari di rivoltelle e scoppi di bombe. L’opera di repressione del moto continuò, carabinieri e agenti della forza pubblica per le vie della città iniziarono i rastrellamenti eseguendo molti arresti.
La narrazione dei fatti riportata dalle pagine di un altro periodico, l’Azione Pugliese, che nella indicativa premessa dell’articolo, a far colpo sui lettori, dichiarava: ecco la cronistoria nei suoi più minuti ed inconfutabili particolari, assunti e concordati da noi personalmente non solo in tutti gli uffici competenti, ma pure dalla bocca degli attori principali, e da persone serie per le vie, e per le piazze ancora lugubri, tetre, toccate dai colpi di moschetti, di mitragliatrici e coi segni di bombe a mano e di sangue da per tutto. L’articolo ragguagliava su alcuni dettagli, per esempio: la folla dei cittadini composta da socialisti e anarchici nel pomeriggio, secondo la versione de l’Azione Pugliese, si era radunata presso la piazzetta Dionisi, slargo che per completezza di informazione era ed è collocata sul lungomare del porto interno oltre i giardinetti della marina e l’edificio che comprendente la Capitaneria di porto e la Dogana, nella piazzetta, a giustificarne la folta presenza di sovversivi, vi era la sede dei socialisti brindisini. Secondo il periodico locale dalla piazzetta in questione si attaccò un fuoco violento contro il «Molfetta» che fu preso di mira pure dagli arditi che non volevano imbarcarsi. Ovviamente impegnandosi nell’articolo a distinguere tra chi prima avesse iniziato a sparare, l’articolo sottolineava che chi stava a bordo della nave aveva soltanto dopo risposto al fuoco. Infine con l’aiuto di un rimorchiatore ben corazzato di mitragliatrici fu imposta la partenza e così si tagliavano le cime che tenevano fermo il piroscafo alla banchina ed il Molfetta con soli 40 dei 120 arditi si allontanò a tutta velocità da Brindisi alle ore 23,30. Vere scene di guerriglia urbana si svilupparono tra le banchine del porto e le strade del centro. Ci fu l’uso, ritenuto opportuno per spazzare i gruppi di malintenzionati, i teppisti e i curiosi, di un autocarro con due mitragliatrici che circolando da per tutto e crepitando colpi in aria facevano tutti rincasare.
Secondo l’elenco delle persone borghesi ferite o rimaste uccise in occasione dei disordini avvenuti a Brindisi il 29 giugno 1920, redatto dal capitano dei RR. Carabinieri, Di Iorio, erano registrati due morti per ferita d’arma da fuoco: Stillo Vincenzo manovale e Fusco Leonardo vetturino, altri 9 nomi erano annotati in cura: Manfredi Cosimo, Lopalco Cosimo, Arditi Carlo, Bernabei Emanuele, Tortorella Vincenzo, Mancini Aurelio, Ribezzi Antonio, Di Franco Guglielmo,Spada Francesco. Nell’articolo de la Provincia di Lecce il Bernabei Emanuele veniva segnalato in condizioni gravissime per una ferita all’inguine.
I due morti, riportano le cronache, molto preso la mattina furono portati al Cimitero per ordine dell’Autorità Giudiziaria. I nove feriti furono invece portati all’Ospedale di tappa che momentaneamente era stato allestito in corso Garibaldi di fronte al caffè Limongelli e soccorsi dal personale medico militare.
I carabinieri e la polizia, come risultato del rastrellamento eseguito in tutta la città effettuarono numerosi arresti. I nominativi dei fermati riportati nell’elenco della Questura sono 35: tra cui uno dei più famosi era sicuramente Arturo Sardelli, allora Segretario della Camera Lavoro operaio aeronautico, falegname ebanista, socialista, attivo nella propaganda pacifista e antimilitarista da prima della guerra, poi oppositore del regime fascista, fu poi per 5 anni confinato politico, componente del Comitato Liberazione provinciale e segretario provinciale del PSI nonché sindaco di Brindisi per un breve periodo del 1945; De Vita Angelo Raffaele segretario della Federazione della Gente di Mare di simpatie socialiste; Annunziato Arcangelo Masiello, operaio edile e all’epoca socialista, è un altro degli arrestati per i fatti del 29 giugno 1920 per avere, assieme ad altri, incitato all’ammutinamento un reparto di arditi che dovevano imbarcarsi da Brindisi per l’Albania e in tale circostanza fu accusato di essere stato responsabile di mancato omicidio. Divenuto in seguito attivo comunista, dopo varie peripezie, fu infine arrestato nel 1937 con molti altri militanti comunisti per attività sovversiva, fu confinato per 5 anni; la coraggiosa Nuzzo Teodora “maritata Brugnola”, operaia, fu arrestata assieme al marito Brugnola Pietro, muratore. Seguono di seguito i nomi degli altri arrestati: Nasti Raffaele bracciante; Guidotti Augusto cameriere, Marangio Pasquale di anni 14 bracciante, Di Tommaso Paolo cuoco. Lamarra Cosimo carbonaio. Tasco Damiano carbonaio. Capobianco Alfonso carbonaio. Balestra contadino., Ferramosca Augusto muratore. Cinosa Teodoro elettricista arrestato prima del conflitto e per incitamento alla disobbedienza, come Di Castri Angelo; Centonze Antonio tipografo ; Esposito Giuseppe, metallurgico viene arrestato presso la camera del lavoro; Fava Eugenio bracciante; Vogna Eduardo ebanista; Balsamo Antonio calzolaio; Morelli Antonio carbonaio; Rossiello Michele manovale ferroviario; Cristofari Alfredo muratore; Ficorilli Renato meccanico; Carraffa Cosimo calzolaio; Barba Ernesto carbonaio; Dilemma Paolo bracciante; Bruno Franceso bracciante; Quaranta Giuseppe muratore; Di Franco Guglielmo bracciante; Spada Giuseppe Ferito; Terranova Domenico venditore di libri, arrestato con rivoltella; Vergine Fortunato panettiere; Ferrara Luigi giornalaio.
Alcuni organi di stampa locale riportarono numeri differenti. Secondo l’Azione Pugliese, l’elenco riportato era di 32 nominativi, mentre per la Provincia di Lecce, il totale era di 36 arrestati. La Polizia, fatta irruzione nella Camera del Lavoro, aveva sequestrato registri e carte nella speranza di trovare documenti utili a dimostrare e confermare la premeditazione eventuale del conflitto.
In conclusione, degli incidenti del 29 giugno, dopo la lunga e una cruenta notte costellata di scontri, sopraggiunse il nuovo giorno e poco dopo, secondo la versione della stampa locale, parte degli Arditi ribelli si costituì presso il Comando tappa. Degli altri non si ebbero notizie.
Nella stessa mattina, a frenare altri insani propositi, giunsero in città per presidiarla 300 militari, 100 carabinieri, con due auto blindo oltre ad una Sezione Artiglieria.
Ora a Brindisi regna la calma più completa, anche per il fatto che la città è in una specie di stato d’assedio, commentava La Provincia di Lecce .
Il periodico l’Azione Pugliese, considerato dagli studiosi banale di carattere localistico e ristretto, che riportava in maggioranza piccola pubblicità di medici, farmacisti e baristi, o annunci di nascite e matrimoni, aveva aggiunto all’articolo del primo luglio un’ombra di complotto, per la morbosa gioia dei lettori raccontava una non provata e occulta mano nera.
Qualche rigo più avanti, l’articolo de L’Azione Pugliese precisava ciò che intendeva per misteriosa mano nera: Lasciati liberi i 120 arditi furono avvicinati da alcuni facinorosi socialisti della locale Camera del Lavoro, di cui stavano parecchi disoccupati perché giorno festivo. Invitati a rifiutarsi i baldi arditi furono dapprima tutti restii agl’incitamenti della mano nera. Dunque la mano nera altro non era che la locale Camera del Lavoro e i facinorosi socialisti.
Una volta giunti al Comando di tappa, i 120 arditi espletate le pratiche di rito, ebbero la libera uscita. Ciò bastò a metterli a contatto degli elementi torbidi, i quali si servirono delle ore disponibili fino all’ora dell’imbarco, per esorcizzare i bravi e valorosi militi. Questo scriveva la Provincia di Lecce a conferma di ciò che sicuramente era accaduto il 29 giugno nelle ore prima dei gravi incidenti del porto. L’incontro dei militari con i sovversivi socialisti della Camera del Lavoro risultava anche in sottoprefettura, i funzionari erano a conoscenza dei contatti avuti da alcuni degli Arditi che erano in libera uscita per le vie della città.
Nella realtà il complotto altro non era stata che la naturale capacità delle formazioni politiche e sociali e delle persone che vi aderivano, in quel particolare momento, di dialogare e di essere in sintonia, nella città di Brindisi, con diversi strati della popolazione locale, militari compresi, nel particolare e difficile momento del primo dopoguerra italiano,dove si assommavano problemi di quotidiana sussistenza dei ceti più deboli ad una crescente avversione per la guerra che l’aveva provocata.
Più in generale il collegamento tra diverse città delle formazioni politiche socialiste ed anarchiche era il frutto della convergenza che avevano in quella fase sul tema importantissimo contro la guerra.
Il complotto riproposto sulle pagine de la Provincia di Lecce, adombrava tale sospetto dando la notizia della venuta a Brindisi, giorni prima, di alcuni emissari anarchici che diffusero dei manifestini antimilitaristi ed ebbero frequenti conciliaboli con qualche locale facinoroso.
Non era da escludersi che ci fossero stati contatti, per altro abituali, tra sindacati, associazioni e leghe di lavoratori in una dimensione di solidarietà e di un sentire comune. L’unità di intenti era fondamentale per le associazioni di lavoratori. In questa logica non è da respingere l’idea che ci fossero stati rapporti politici tra la Federazione di Brindisi della Gente di Mare con associazioni sorelle, come quella di Ancona, e tra l’allora segretario della Federazione brindisina De Vita Raffaele con gli anarchici Raniero Cecili e Bruno Fattori dirigenti dei lavoratori portuali anconetani. Cecili e Fattori, dirigenti del porto di Ancona in quanto responsabili di una commissione d’inchiesta incaricata di vagliare i porti di Bari, Taranto, Brindisi e Napoli avevano avuto rapporti di varia natura con molti loro colleghi.
I socialisti e la Camera del Lavoro di Brindisi, forti della loro lunga tradizione pacifista e antimilitarista sin dai tempi del primo Novecento, avevano già organizzato per il 7 giugno del 1920, un comizio all’Arena Margherita per denunciare le ingenti spese sostenute dal governo per l’armamento dell’esercito, che sottraevano risorse per i lavoratori, e per incitare i soldati a non partire per missioni militari di aggressione all’estero. E certamente nei giorni seguenti l’attività di propaganda, con la distribuzione di manifestini antimilitaristi, contribuì a rafforzare nell’opinione pubblica l’idea che la guerra in generale e le azioni belliche in terre straniere in particolare fossero inutili e da avversare.
Il Partito socialista, per una sommaria inchiesta sui fatti del 29 giugno, stando ad una notizia apparsa su la Provincia di Lecce del 10 luglio successivo, aveva inviato a Brindisi l’onorevole Paolini che si era prima incontrato con i due più importanti dirigenti socialisti locali: l’avvocato Felice Assennato, che nel 1921 sarà il primo deputato socialista eletto nel Salento, e l’ingegner Giuseppe Prampolini, a Brindisi dal 1904, attivo propagandista delle idee socialiste rivoluzionarie e instancabile organizzatore delle masse, considerato l’ispiratore, e per tale reato denunciato all’autorità giudiziaria, della rivolta dei soldati e dei cittadini contro la spedizione per Valona. Successivamente Paolini aveva conferito col sottoprefetto Dentice d’Accadia, ripartendo poi subito per Roma, ma, pare, poco soddisfatto degli elementi raccolti, a testimonianza di quanto fossero diverse e confuse le posizioni in seno al partito sui fatti di giugno.
L’articolo continuava raccontando gli atti dopo i fatti del 29 giugno. In primo luogo era evidenziata l’azione della Procura di Lecce che aveva ordinato la traduzione dei sovversivi arrestati, apostrofati come “individui”, in due auto carri militari, a Lecce, scortati da carabinieri a cavallo. Poi di seguito, tanto per tenere alta la paura in generale, la estendeva anche per la presenza di stranieri. Veniva scritto: le autorità locali vanno spiegando un’azione attiva di vigilanza su taluni individui albanesi e greci che praticano i vari caffè ed i ritrovi della nostra città e che si crede siano qui venuti per secondo fine. Concludendo il breve articolo in perfetto stile esterofobo: La popolazione è unanime nel desiderare che questi stranieri parassiti dei caffè e delle conversazioni subdole siano allontanati da questo importantissimo centro.
Una riflessione sugli Arditi giunti a Brindisi da Palermo
Quella degli Arditi fu una specialità dell’arma di fanteria del Regio Esercito italiano durante la prima guerra mondiale. Il corpo era costituito da autonomi reparti d’assalto, nati per dare sbocchi alla statica e logorante guerra di trincea e trasformarla, nel momento di necessità, in battaglia offensiva. Il corpo diede un importante contributo alla riscossa italiana dopo Caporetto e alla vittoria della guerra.
In seguito, nel dopoguerra dal 1919 il corpo venne rapidamente smobilitato. Infine il governo Bonomi ne decise lo scioglimento nel 1920.
Lo stesso anno vennero ricostituite in diversi luoghi formazioni di volontari Arditi, formazioni che nell’immediato dopoguerra ancora non erano confluite nelle squadre e nel movimento fascista. Nel caso particolare dell’Associazione degli ex Arditi di Palermo giunti a Brindisi, essa aveva una caratteristica: l’Associazione palermitana era nata da dissidenti fuoriusciti dall’Associazione Nazionale Combattenti considerata da loro moderata. Tra i dissidenti c’era Marino Gaetano fondatore poi presidente degli Arditi. Il Mariano, aveva guardato, sin dal ’19, con simpatia agli scioperi e alle agitazioni siciliane contro il caroviveri. Egli sosteneva la necessità di una lotta di classe inconciliabile e aveva cercato un raccordo con anarchici e socialisti oltre con la Lega democratica di Salvemini.Tali precedenti nell’Associazione può spiegare la predisposizione di molti Arditi ad aderire agli appelli contro la guerra fatti dai sovversivi brindisini.
La rivolta albanese e l’assedio di Valona
Più in particolare le sollevazioni italiane del giugno del 1920 avevano avuto origine dagli avvenimenti che erano andati maturando in Albania. Verso la fine di gennaio del 1920, con varie formazioni patriottiche di diverse zone dell’Albania e secondo alcune fonti anche con l’adesione dei capi delle tre religioni presenti nel paese (la mussulmana, l’ortodossa e la cattolica), si era tenuto un Congresso a Lushnje, quello fu un atto fondamentale della storia albanese. L’assemblea di Lushnje fu uno dei momenti di massimo sviluppo del risveglio nazionale del popolo albanese. A Lushnje i partecipanti decisero di difendere l’integrità territoriale, affermarono l’indipendenza dell’Albania e si dichiararono pronti a prendere le armi e combattere per ottenere i loro diritti. L’Assemblea nazionale di Lushnje elesse una reggenza provvisoria di quattro uomini per governare il Paese. Furono istituiti un parlamento bicamerale, una camera inferiore o Camera dei deputati elettiva e si nominò anche una camera superiore o Senato. Nel Congresso di Lushnje fu definito uno Statuto provvisorio e nacque un nuovo governo che, non potendo insediarsi nell’antica Durazzo per espresso divieto del comando militare italiano, si stabilì dall’11 febbraio del 1920 a Tirana che da quel momento diventò la capitale del Paese delle aquile. Venne anche dichiarata decaduta la delegazione presente a Parigi e il governo provvisorio filo-italiano di Durazzo
Il nuovo governo riuscì gradualmente a riguadagnare la sovranità del territorio albanese. Il risveglio del sentimento nazionale in breve tempo si era trasformato in un movimento di liberazione dell’Albania che crebbe e divenne sempre più aggressivo attuando una spietata guerriglia contro gli occupanti italiani. Nella primavera del 1920, tra aprile e maggio, la guerriglia costrinse l’esercito italiano, che contava 20.000 uomini, a lasciare le località presidiate dell’interno, nei posti più remoti dell’Albania. Le truppe italiane si ritirarono verso la costa, la maggior parte a difendere il campo trincerato di Valona, e altri presidi militari furono tenuti a Scutari, a San Giovanni di Medua, a Durazzo e a Saranda.
Il Comitato della Difesa nazionale, la struttura operativa del movimento di liberazione albanese, aveva inviato al generale Piacentini, comandante del presidio italiano di Valona, un ultimatum il giorno 3 giugno del 1920. Faceva la richiesta che Valona, Tepeleni e Imara passassero subito sotto il controllo del nuovo governo di Tirana. Il testo dell’ultimatum, tra l’altro, dichiarava con enfasi patriottica: «… da cinque anni Valona, culla dell’indipendenza albanese è governata come una delle più basse colonie; oltre la lingua, l’amministrazione e la nostra bandiera ci furono negate con le condizioni più severe, peggio ancora che durante il regime turco … »,
Pochi giorni dopo, il 5 di giugno, le forze nazionali albanesi, scaduto l’ultimatum inviato al comando delle truppe d’occupazione italiane, assaltarono i vari presidi e distaccamenti isolati nell’area di Valona, che fungevano da cintura difensiva, costringendoli alla resa. Con la caduta dei presidi italiani, gli insorti entrarono in possesso di molte armi. Il giorno 11 giugno gli albanesi attaccarono con circa 5.000 guerriglieri la città di Valona stringendola d’assedio, in collegamento con diversi rivoltosi che si erano sollevati in città. L’attacco albanese fu contenuto dal fuoco d’artiglieria della piazzaforte a cui si erano aggiunto quello di alcuni cacciatorpediniere e la rivolta in città fu domata. La controffensiva organizzata dal generale Piacentini, con diverse sortite tra il 18 e il 19 giugno, fallì e Valona continuò a rimanere sotto l’assedio delle forze albanesi. Ma era chiaro, al subentrato governo Giolitti, che il possesso di Valona poteva essere mantenuto soltanto con l’invio di notevoli rinforzi e a costo di una guerra di durata imprevedibile. Intanto alla metà di giugno le truppe francesi, le ultime rimaste, avevano abbandonato il suolo albanese.
Camere del lavoro e socialisti anarchici pacifisti
Nelle sollevazioni popolari italiane contro l’avventura in Albania un ruolo centrale lo ebbero le Camere del Lavoro di Trieste, di Ancona e di Brindisi e di tante altre città italiane. Le CdL diventarono protagoniste delle manifestazioni e delle sollevazioni popolari che affiancarono le rivolte militari contro l’invio di truppe a Valona.
Sia a Trieste che a Brindisi ed Ancona i militari, durante le loro ribellioni, avevano preso contatto con le Camere del Lavoro. Erano queste, strutture sindacali, presidi nel territorio già esistenti da tempo e che in quel primo dopoguerra, tra il 1919 e il 1920, svolsero una funzione importante di solidarietà tra operai e il popolo di lavoratori artigiani e piccolo-borghesi, oltre che di tutela degli interessi generali del mondo del lavoro. Le Camere del Lavoro erano viste e sentite come l’organizzazione più corrispondente alle loro necessità e ai loro ideali. Erano il luogo dove spesso convivevano l’anima riformista, quella massimalista e la componente rivoluzionaria del sindacalismo. Le Camere del Lavoro erano animata da socialisti, da anarchici e persino dai repubblicani. Le Camere del Lavoro svolgevano una funzione di tutela del singolo lavoratore attraverso azioni solidali e di mutuo soccorso e anche di rappresentanza collettiva di diverse categorie lavoratrici organizzandole, definendo vertenze, gestendo il conflitto sociale, contrattando le condizioni di lavoro con le controparti, oltre a essere spazio pubblico di socializzazione aperto alle classi subalterne delle comunità locali.
Nel primo dopoguerra ci fu una forte adesione di massa al socialismo, ai sindacati, alle Camere del Lavoro. Il fenomeno si giustificava con la necessità delle classi subalterne di difendersi contro l’inflazione che, contenuta durante la guerra, era esplosa nel dopoguerra. A questa si aggiungeva la naturale reazione contro la guerra, a cui si associava la spinta entusiasmante proveniente dalla rivoluzione russa.
Il Partito Socialista, il 3 giugno del 1920, prima che la situazione precipitasse, si era pronunciato contro la l’avventura militare in Albania. I Socialisti, oltre che richiedere che fossero ritirate le truppe italiane, si erano dichiarati a favore dell’indipendenza albanese considerandola legittima.
Sia l’Avanti, il giornale socialista, che il quotidiano anarchico Umanità nova sostenevano la protesta contro la guerra e contro la spedizione militare: Via da Valona fu la parola d’ordine che i socialisti lanciarono e che trovò consenso in molte piazze d’Italia.
Trieste
In Italia, nella prima decade di giugno del 1920, il primo reggimento d’assalto degli Arditi era in attesa a Trieste per essere imbarcato per l’Albania a dare man forte alle truppe italiane asserragliate a Valona. Nel porto erano pronti per l’imbarco tre piroscafi. Alcuni Arditi che erano contro la spedizione in Albania, l’11 di giugno presero contatti con i giornalisti della redazione de Il Lavoratore, il giornale dei socialisti triestini, e con la Camera del Lavoro dove erano attivi i giovani socialisti del locale Circolo tra cui si diffondevano idee rivoluzionarie ed era forte l’attrazione su ciò che i bolscevichi stavano attuando. Dai contatti tra gli Arditi e gli ambienti locali del mondo del lavoro scaturisce poco dopo una grande mobilitazione popolare, si forma una colonna di migliaia di operai e di donne. Un corteo con alla testa numerosi Arditi sfilò per le vie della città e inscenò dimostrazioni di fronte alle caserme. Gli Arditi in corteo furono i protagonisti di numerosi atti di rivolta. Presso la caserma Rossol scoppiano gli incidenti più gravi e ci furono molti feriti. Tra questi rimane mortalmente ferito l’ufficiale di picchetto Giovanni Spano. Verso la mezzanotte gli incidenti terminarono e la colonna dei militari ribelli si arroccò nella città alta dove erano situati i quartieri popolari. Il giorno successivo il comando riuscì a far imbarcare solo una parte delle truppe e inviarle in Albania. Diversi Arditi furono in grado di far perdere le loro tracce rifugiandosi nei quartieri popolari della città mentre altri fuggirono verso Fiume, la città ancora occupata dai volontari di D’Annunzio.
Ancona
Nella notte tra il 25 e il 26 giugno l’11° reggimento dei bersaglieri, che era acquartierato nella caserma Villarey della città, si ammutinò agli ordini superiori. I bersaglieri temevano di essere inviati in Albania. Infatti, prima di imbarcarsi per Valona sul piroscafo Magyar, i bersaglieri avevano assunto nella notte il controllo della caserma, disarmando gli ufficiali e rinchiudendoli nelle celle della stessa.
Questa la ricostruzione ufficiale dei fatti realizzata il 7 luglio successivo: alcuni elementi anarchici locali, di intesa con pochi militari dell’11° Bersaglieri di principi sovversivi, approfittando del malumore che si era manifestato tra i soldati del 33° Battaglione che doveva partire per l’Albania, spiegarono la loro opera nefasta per inscenare una grave rivolta nell’interno della Caserma anzidetta. A tale scopo, nella notte dal 25 al 26 detto mese, un gruppo di anarchici, in parte travestiti da bersaglieri, riuscirono ad introdursi, con l’aiuto dei loro compagni appartenenti al reggimento, nella Caserma Villarey, e, dopo avere aggredito e disarmato l’Ufficiale di picchetto tenente Ciavarra Sig. Antonio, ed il sergente d’ispezione, nonché gli altri ufficiali presenti in caserma…
Solo verso l’alba del giorno 26 il comando di divisione era venuto a conoscenza dell’avvenuta occupazione militare da parte dei rivoltosi. Nella caserma si ode il grido in Albania non si va. I bersaglieri asserragliati intonano anche l’inno bandiera rossa.
Era già accaduto nella giornata del 25 che i bersaglieri capi della rivolta avevano già preso contatto in Ancona con la Camera del Lavoro e con i socialisti, gli anarchici e repubblicani chiedendo il loro appoggio. Tra di essi ci sono gli anarchici Antonio Cieri e Giovanni Mariga. Tra i socialisti Mario Alberto Zingaretti, Angelo Sorgoni e Albano Corneli. I rappresentanti politici, a fronte delle richieste dei militari ribelli, avevano dato una generica disponibilità ad appoggiare la ribellione.
Il comando militare di Ancona, dopo avere appreso della ribellione, aveva stretto d’assedio la caserma Villarey verso cui vennero puntati i pezzi d’artiglieria, ma le misure e gli ordini del comando nella realtà vennero disattesi in quanto molti dei militari, quasi tutti bersaglieri, non eseguirono gli ordini degli ufficiali e palesemente solidarizzano con i bersaglieri ribelli. Le strade di accesso vennero bloccate e la caserma fu circondata da carabinieri e guardie regie. Il comando militare della città proclamò lo stato d’assedio.
In modo inizialmente spontaneo, attorno alla caserma assediata iniziarono a formarsi assembramenti di persone. Iniziò poco dopo lo sciopero generale che in breve tempo fermò Ancona. Numerosi lavoratori del porto e dei cantieri, donne e popolani in genere, si raggrupparono e, rivolgendosi ai militari, gridarono contro la guerra e inneggiarono alla rivoluzione.
Il prefetto Bladier comunicò, attorno alle ore 10, al governo che l’astensione al lavoro è generale… scioperanti riunisconsi alla Camera Lavoro ove sono circa 6.000…. bisogno rinforzi è urgentissimo occorrono non meno di altri 1.000 uomini truppa e altro forte numero di carabinieri e non meno di 500 guardie regie nonché R. nave guerra.
Alcuni ragazzi e giovani tra i 15 e 18 anni, ragazzacci borghesi, erano riusciti ad entrare nella caserma. Gli furono consegnate armi. Nei pressi della caserma ormai c’erano migliaia di manifestanti e si registrarono i primi scontri con feriti e diversi morti tra i dimostranti.
Dalla caserma si cercò, senza riuscirci, di collegarsi ai manifestanti e di raggiungere la Camera del Lavoro. Inutili furono i tentativi di inviare una delegazione in prefettura, impedita dalla presenza di migliaia di dimostranti.
Nel primo pomeriggio attorno alle ore 14 i bersaglieri, assediati in caserma ed isolati dalla città in rivolta, decisero di aprire le trattative con le autorità militari. L’aspetto negoziale della trattativa, dopo momenti di confusione, si concluse rispettando la ferma volontà dei bersaglieri di non partire per l’Albania. Dopo aver ottenuto solennemente promessa e dopo la liberazione degli ufficiali prigionieri, si arresero. I capi della rivolta fuggirono aiutati dai bersaglieri. Alla caserma Villarey non c’era stata nessuna resa. Il comando era rientrato in caserma perché i bersaglieri avevano acconsentito.
A conferma il pro-Sindaco di Ancona Petrelli che era intervenuto nelle trattative, parlò in seguito nel Consiglio comunale di conciliazione.
La ribellione dei bersaglieri a Villarey era durata dunque poco più di dodici ore, sufficienti tuttavia a mettere in agitazione tutto il Paese e sconvolgere i piani del governo.
Il fuoco della sollevazione ormai era divampato per l’intera città di Ancona, le armi circolavano liberamente, un’armeria fu assaltata e svuotata, da diversi presidi militari vennero consegnate armi ai rivoltosi, barricate con postazioni di mitragliatrici sorsero in diverse parti di Ancona, i forti militari a difesa della città furono occupati. Diversi sono gli episodi violenti. La prefettura, pochi giorni dopo, l’evento scriverà: tutto il vasto rione Archi, Piano San Lazzaro, e Borgaccio, popolato in prevalenza da anarchici e sedi della Camera del Lavoro, delle Sezioni del Partito Socialista Ufficiale, del circolo Soviettista e dell’Unione comunista anarchica, si sollevò credendo giunta l’ora della rivoluzione. Fu ucciso l’agente investigativo Cristallini e furono barricate Porta Pia, il Cavalcavia e la via Montirozzo, fu occupato il forte Savio.
Si sparava dai tetti dalle finestre si tentò di assaltare la stessa prefettura. Su i due fronti si scontrarono militari, alcuni di loro delle due fazioni caddero negli scontri divampati a Porta Pia, alla Stazione e al Piano San Lazzaro.
A fronte dell’inarrestabile rivolta armata, il prefetto e il comando militare ordinano di usare l’artiglieria da terra dal monte Cappuccini e dal mare dove ci sono pronti diversi cacciatorpediniere. Diverse truppe di rinforzo giunsero da varie città. C’è anche un episodio di ammutinamento sulla regia nave Roma dove i marinai gettarono gli otturatori dei cannoni in mare.
Alla fine la rivota fu domata. Furono arrestati i socialisti Albano Corneli (direttore della rivista Bandiera Rossa), Mario Zingaretti (dirigente sindacale) e gli anarchici Ercolano Cinti e Mario Moccheggiani.
I sovversivi arrestati, malgrado il loro diniego, furono considerati i capi della rivolta e rimasero per mesi senza processo. Per i fatti di Ancona furono arrestate 411 persone e lo sciopero ebbe fine il 5 luglio.
I luoghi della rivolta
I fatti di Ancona ebbero una grande eco nelle Marche e nel paese suscitando forti mobilitazioni popolari: la Camera del Lavoro di Jesi proclamò lo sciopero generale, un grandioso corteo attraversò la città. Repubblicani, socialisti e anarchici si mossero uniti, fu formato un “comitato di agitazione” che assunse tutti i poteri, come un Soviet. Il Segretario Nazionale del PRI, Fernando Schiavetti, tenne una affollata conferenza su “crisi di regime e necessità della rivoluzione”.
A Senigallia, Chiaravalle, Fabriano e in altri centri minori marchigiani si attuò lo sciopero generale.
A Pesaro il 27 giugno una delegazione socialista, dopo una manifestazione, si avviò a parlamentare con il prefetto. Dopo un gruppo di persone tentò di disarmare le guardie del carcere, mentre altri gruppi andarono alla polveriera per farsi consegnare le armi. Un corteo proseguì verso la stazione ferroviaria per impedire ai treni carichi di armi di partire per l’Albania.
A Macerata fu proclamato lo sciopero generale, a Porto Civitanova fu interrotta la ferrovia, vi furono scioperi e cortei a Monte San Giusto, Recanati, a San Severino si fecero barricate.
A Fermo con lo sciopero generale e si interruppero le linee telegrafiche.
A Terni venne interrotto il traffico ferroviario per bloccare le truppe inviate a reprimere la rivolta di Ancona e il 27, durante lo sciopero e la manifestazione in piazza Vittorio Emanuele, i carabinieri spararono e ci furono cinque morti e decine di feriti.
Il giorno dopo a Narni fu sciopero generale, i treni furono costretti a fermarsi ad Orte.
Un convoglio carabinieri giunto a Tolentino trovò ostacoli sulla strada posti dagli scioperanti.
In Romagna a Rimini, Forlì, Cesena, Forlimpopoli, Cesenatico e tante altre località ci furono scioperi generali.A Piombino i carabinieri spararono uccidendo due manifestanti.
A Milano fu proclamato lo sciopero e un corteo raggiunse la locale caserma dei bersaglieri per manifestare solidarietà alle manifestazioni popolari e opposizione alla partenza di altre truppe per l’Albania. A Cremona fu proclamato uno sciopero di 48 ore.
A Roma fu dichiarato dalla Camera del Lavoro uno sciopero ad oltranza (durato due giorni).
Movimenti per la partenza di truppe si segnalarono a Santa Maria Capua Vetere, Milano, Bologna. A Capua si effettuò un sorteggio tra i soldati per mandarli in Albania.
il 3 luglio il prefetto di Pavia comunicava: hanno creato nello spirito pubblico un certo eccitamento che purtroppo va estendendosi anche fra le truppe del Presidio
Donato Peccerillo
RIFERIMENTI:
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