Eftimiadi, Marco
Eftimiadi Marco. Nato a Brindisi, il 24 gennaio 1921. Partigiano dal 9 settembre 1943 nella formazione GAP del IX Corpo dell’ELPJ. Viene impiccato come ostaggio, assieme ad altri 50 martiri, a Trieste, in via Ghega, il 23 aprile 1944.
“Eftimiadi Marco. Nato a Brindisi, il 24 gennaio 1921 da Luca e Zaccaria Raffaella Lucrezia Gioconda in via Carlo Demarco n°1.
Partigiano dal 9 settembre 1943 nella formazione GAP del IX Corpo dell’ELPJ. Viene impiccato come ostaggio, assieme ad altri 50 martiri, a Trieste, in via Ghega, il 23 aprile 1944.
[Cfr. C. Ravnich, Martiri ed eroi della divisione Garibaldi, op. cit., Padova, 1950, pag. 91; Brigata d’Assalto Garibaldi – Trieste, Elenco nominativo dei caduti, c/o IFSML.”]
“Marco Eftemiadi studente alla facoltà di scienze economiche e commerciali dell’Università di Trieste,entrò nell’antifascismo attivo alla fine del 1942. Dopo l’armistizio del settembre 1943 non potendo come era suo vivissimo desiderio recarsi fra i partigiani in montagna a causa di una imperfezione fisica, entrò nell’organizzazione clandestina della resistenza “Fronte della gioventù ” che operava a Trieste.
Vi prestò attività intesa ed apprezzata. Collaborò con entusiasmo a giornali clandestini della resistenza nonché alla compilazione di materiale di propaganda.
A causa di questa attività, fu arrestato nella notte del 1 marzo 1944 da una decina di militi della S.S. insieme ad altri dirigenti della resistenza e rinchiuso nelle segrete del comando S.S. di piazza Oberdan e successivamente nelle carceri del Coroneo.
Sopportò eroicamente le feroci torture cui tu sottoposto durante la prigionia e non tradì i compagni di lotta.
Fu impiccato dai nazisti il 23 aprile 1944 nel palazzo Rittmayer di via Ghega.”
[Da: IRSML Trieste, Ufficio Storico, documento n° 2825 del 07. 11. 1952]
Sempre dall’IRSML di Trieste:
da “Il Piccolo” del 23 04 1944:
“Un attentato dinamitardo al “Deutsches Soldatenheim”
Ufficialmente si comunica:
Ieri, sabato, elementi comunisti hanno compiuto un attentato dinamitardo al «Deutsches Soldatenheim » a Trieste, che è costato la vita ad alcuni soldati tedeschi e ad alcuni civili italiani.
Sono state arrestate in gran numero persone della cerchia più vicina agli attentatori. La Corte marziale ne ha condannate a morte 51. La sentenza è stata eseguita immediatamente.”
Da “Il Giornale di Trieste” del 12° 17 aprile 1954
“[…]L’esecuzione avvenne di buon mattino e sembra durasse piuttosto a lungo, nonostante la cruda semplicità del cerimoniale. Una delle vittime — lo studente Marco Eftimiadi, di 22 anni — venne prelevato dall’infermeria del Coroneo alle sette del mattino, ma sembra ch’egli sia stato uno degli ultimi a salire il patibolo. Citiamo il suo nome, fra i tanti, perché sulle sue ultime ore abbiamo raccolto qualche testimonianza. Era stato arrestato in seguito alla delazione di un rinnegato: sorte ch’egli ebbe in comune con moltissime altre vittime di Quegli anni terribili. Si trovava al Coroneo già da un mese. Un mese d’inferno, fra continue intimidazioni e torture. Non parlò, non fece un nome, non disse nulla che potesse compromettere la causa. Quando vennero a prelevarlo, quella mattina, disse ai
suoi compagni di prigionia che non gli importava di morite: «Mi vendicheranno», disse. –Ma parlò senza odio nella voce, come se dicesse una cosa ovvia.
Il giorno stesso della strage, quando i familiari delle vittime giunsero alle porte del carcere
per recare i soliti pacchi ai detenuti, questi furono respinti.
Chi chiedeva notizie del suo caro riceveva una sola risposta:
«Non è più qui». Senza altra indicazione o commento. Molti attesero la fine della guerra con la speranza di veder ritornare il loro caro da un campo di concentramento. Ma qualcuno sospettò subito quanto era avvenuto e ne ebbe tremenda conferma passando di fronte al tragico palazzo di via Ghega, alle cui finestre vide penzolare il corpo inanimato del figlio, del fratello o della moglie.
Sulle modalità dell’esecuzione si hanno due diverse versioni. Vi è chi afferma che le vittime predestinate giunsero sul luogo del sacrificio già quasi incoscienti per l’effetto del gas che sarebbe stato immesso nei camion durante il trasporto dalle carceri a Palazzo Rittmeyer: altri i dice che i martiri affrontarono il sacrificio con piena coscienza
e che il loro comportamento fu eroico. A gruppi di cinque salirono l’ampio scalone, dovettero quindi montare,spinti dai boia nazisti, sulla ringhiera di marmoe furono infine scaraventati nel vuoto, con al collo un nodo scorsoio. Quando non ci fu più posto e non vi furono più colon- nine della balaustra per sostenere altri corpi, i tedeschi trovarono subito altre forche improvvisate e i cappi vennero fissati alle imposte delle finestre e agli armadi a muro. Cinque giorni più tardi, un gruppo di «SS» veniva inviato sul posto a recidere con la baionetta le corde che sostenevano ancora i corpi dei martiri, e questi caddero nella tromba dello scalone, ove erano ad attenderli altri «SS» per gettarli nelle bare.[…]”
Da: “L’Emancipazione “( il giornale del Partito d’Azione di Trieste) del 20 aprile 1947 :
“Sale un’invocazione dal martirio di via Ghega – a tre anni di distanza dura ancora l’orrore per la macabra visione di quei corpi ciondolanti nel vuoto, innocenti vittime della pazzia sanguinaria dei capi nazisti-
L’orrore e lo sgomento di quel giorno — 23 aprile 1944 — durano ancora. Gli occhi conservano tuttora la visione di quei miseri corpi inanimati ciondolanti nel vuoto e la conserveranno finché la- mente non avrà saputo placare l’angoscia che sconvolge i nostri cuori e scongiurare la pazzia sanguinaria che ci ha dato, fra altro, Maidanek, Ausschvitz, Buchewanld, Dachau, le fosse Ardeatine e i martiri di via Ghega.
Le ragioni della nostra angoscia e del nostro sgomento si trovano nel cuore ottenebrato degli uomini moderni, nei loro bisogno di odiare e di distruggere tutto ciò che li ostacola, nel loro orgoglio mostruoso e satanico che non ammette critiche, né dissensi né ribellioni. Ahimè, è una malattia che ha profonde radici nel cuore umano. La giusta riparazione che i martiri chiedono dalle loro tombe, non può essere che una sola: la condanna di quel male e la sua scomparsa dalla faccia della terra.
La legge che ha dominato e continua a dominare il mondo la legge della foresta: «occhio per occhio, dente per dente !» ci ha dato pure ì martiri di via Ghega. Bisogna che essa scompaia nel cuore ottenebrato degli uomini, se si vuole che il fatto non si ripeta e non si moltiplichi. Questo e null’altro chiedono i martiri dì via Ghega. La sfera in cui attualmente sì trovano, purificati e santificati dal dolore, non conosce altre vendette. Laura Negrelli, Krizai, Eftimiadi, Biagi, Germani, Soldat. Carte e tutti gli altri, domandano che mai e poi mai delle creature umane fatte a nostra immagine e somiglianza siano trattate come esse io furono.
La vita umana è sacra per tutti, sempre e dovunque, e non ammette differenza di razza, di partito, di classe o di religione.
Le contese e le divergenze si risolvono con armi cortesi, non già col mitra, coi gas velenosi o col nodo scorsoio,. con la legge della foresta deve cessare anche quella, altrettanto nefanda, dei due pesi., e delle due misure che induce gli uomini a condannare soltanto le violenze di cui
sono le vittime e a battere le mani ogni qualvolta il manico del coltello o il calcio del mitra si trovano in loro possesso. In quella triste giornata del 23 aprile 1944 abbiamo sorpreso qualcuno a commentare il martirio dei giustiziati con le parole:”…non erano dei, nostri“.Abbiamo inteso le stesse parole nelle terribili giornate di maggio del 1945,. mentre per le vie della città si snodava il funebre corteo dei deportati, condannati alla foiba o al campo di concentramento. „Non sono dei nostri!…’ Parole funeste, accusatrici per coloro che le hanno profferite.
Finché quelle parole saranno possibili, — e lo sono tuttora — le corde di via Ghega aspetteranno sempre dei corpi umani palpitanti di vita, di speranze e di ideali, esse saranno sempre una dura realtà, un monito ed un atto di accusa per noi tutti.
Dipende da noi soli che quelle corde rimangano o scompaiano per sempre dalia nostra vista. Sono un’infamia che dobbiamo lavare purificando i nostri cuori. Ed è questa la sola maniera degna di commemorare le povere vittime di quel giorno infausto.”
Infine una preziosa testimonianza raccolta dal prof. Roberto Spazzali a cui l’ANPI di Brindisi è infinitamente grata per la collaborazione e le notizie sin qui procurate.
[Roberto Spazzali: La persecuzione continua? Quaderno N°2 a cura dell’Associazione Deportati e Perseguitati Politici Italiani Antifascisti di Trieste, Agorà dicembre 1998.]
“[..]Domenico Riva[..]Così ricorda quella drammatica vicenda: “Nel sotterraneo del palazzo del Comando delle SS di Piazza Oberdan si accedeva facendo due rampe di scale, una porta in ferro chiudeva il sotterraneo nel quale vi era un corridoio fatto ad L largo circa un metro, ivi vi erano state costruite, credo, perché non avevo voglia di contarle, circa 10 o 12 cellette, di circa metri uno e mezzo di larghezza, metri due di lunghezza e, metri 1,70 circa di altezza. In questo inferno dei vivi, dove ogni ora passata lì dentro era l’esperienza di tutta una vita, ogni senso di umanità della SS tedesca era totalmente sconosciuta e la cultura di un popolo, che pure aveva dato all’umanità uomini illustri, naufragava miseramente nel letame del loro nazionalismo, accanendosi bestialmente contro il proletariato, che aveva già sofferto nel
nazionalismo fascista ogni sorta di privazioni (…) Nelle cellette del Bunker sotterraneo di piazza Oberdan, dati i numerosi arresti, eravamo rinchiusi in tre, cosicché invece di stare sdraiati a terra, perché non vi era. nessuna branda o giaciglio, dovevamo per forza di cose, o stare sdraiati a terra come sardelle in scatola o stare seduti per terra con la schiena rivolta verso il muro della celletta. Due piccole lampadine
rischiaravano debolmente il corridoio del sotterraneo, nelle cellette che avevano un piccolo spioncino sulla porta, il quale era sempre chiuso, eravamo sempre all’oscuro.
Gli interrogatori dei prigionieri erano continui, cosicché non si poteva dormire, se si può dire dormire a terra sdraiati, con la paura costante e continua di essere nuovamente interrogati, dopo il ricordo doloroso dell’interrogatorio antecedentemente subito. I lamenti di quelli che erano stati appena interrogati erano come un incubo, come un sogno terribile senza risveglio.
Una volta al giorno, al mattino, aprivano le cellette ed in fila indiana percorrevamo le due rampe di scale, per recarci ad un unico gabinetto che era nel cortile. I bisogni corporali dovevamo farli in circa due o tre minuti, altrimenti come successe con me, si prendeva un calcio nella schiena, perché le SS non avevano troppa pazienza ed erano alquanto impazienti e nervosi II resto della giornata e della notte, chi non ne poteva più, i bisogni corporali li faceva nella celletta a terra. Con me oltre un giovane partigiano sloveno, di cui non ricordo il nome, era rinchiuso nella celletta uno studente universitario di origine albanese, come mi disse lui, il quale si chiamava Marco Eftimiadi, il quale era tutto una piaga per le torture subite, durante gli estenuanti interrogatori, che non si poteva nemmeno toccarlo, però stoicamente sopportava il suo calvario senza un lamento. Eftimiadi mi disse che la SS tedesca, al momento del suo arresto, lo trovarono in possesso di un manifesto antinazista e volevano sapere chi glielo aveva dato, ma era fiato sprecato, perché egli soffrì moltissimo ma dalla sua bocca non uscì nemmeno un nome; tanto che quando fu portato alle carceri del Coroneo, per un paio di giorni fu ricoverato all’infermeria del carcere.
Egli, a causa dei maltrattamenti, orinava spesso, lavandomi la faccia, perché all’oscuro della celletta non vedeva dove
ero sdraiato.
Marco Eftimiadi, come seppi dopo la guerra, finì impiccato in via Ghega. Una volta al giorno, di sera, aprivano tutte le cellette dandoci da mangiare una minestra; però non credo che tutti potevano alzarsi per mangiare, perché sofferenti dalle torture appena subite, rimanevano nella celletta. Io stesso vidi che un giovine, appena si affacciò sulla porta della celletta per prendere da mangiare, cadde pesantemente al suolo, svenuto; tanto che dovette essere portato via dalla SS di guardia sulla porta d’accesso.
Di fronte alla mia celletta vidi per un giorno soltanto, mentre aprivano le cellette per il mangiare, la giovine ed eroica compagna della G.A.P. Clara Micheli (Mihelcic), la quale finì bruciata assieme alla madre alla Risiera di San Sabba. [..]
Una volta alla settimana due donne partigiane, venivano dalle carceri del Coroneo a scopare gli escrementi che chi non ne poteva pia faceva nella celletta; così che ci rotolavamo nello sterco di noi stessi come maiali La puzza e il fetore erano insopportabili ma si vede che noi per quel popolo tedesco, civilissimo, pulito ed ordinato, che tutto il mondo ammira, eravamo soltanto delle misere pulci da schiacciare senza pietà, non esseri umani civili al pari di più ed anche di più, perché le nostre sofferenze erano sofferenze di idealisti, come gli antichi cristiani, per un’umanità più felice, più libera e più umana. La sera del 9 marzo 1944, ci portarono in circa 15 prigionieri alle carceri del Coroneo, dove rimasi fino alla sera del 27 marzo 1944, dove venni di nuovo consegnato, assieme ad altri prigionieri politici, alle SS tedesche, che ci portarono direttamente alla Risiera di San Sabba, prelevandoci il mattino seguente e riportandoci di nuovo al Comando delle SS tedesche di piazza Oberdan, richiudendoci di nuovo nelle cellette del sotterraneo. Il giorno 18 o 19 aprile 1944, ci radunarono nel cortile del palazzo, in circa 20 prigionieri politici ed un ufficiale ci fece questo discorso in perfetto italiano. Trieste non fa più parte dell’Italia, questa terra è ormai parte integrante del grande Reich, questa terra è l’Adritisches Kustenland; se voi siete antifascisti a noi non importeaniente, questo è un affare interno italiano, voi non dovete essere contro dì noi. Oggi vi graziamo perché fra giorni sarà l’onomastico del nostro Fuhrer, voi eravate destinati ad essere deportati in Germania ora vi lasciamo liberi, ma attenti a non ricadere di nuovo nelle nostre mani, perché vi pentireste amaramente della nostra momentanea magnanimità.”
Laurea ad honorem che l’Università di Trieste ha rilasciato ai familiari nel 1952